IL VERDETTO DELLA ZUCCA

«Signore e signori, ecco qua davanti a voi, per la vostra gioia e per il vostro divertimento, i veri mostri di Halloween

Il pubblico – una quindicina di persone appena – applaudì e schiamazzò. Una donna strillò, elettrizzata; un ragazzo smunto si alzò, e prese a saltare esibendo la lingua come un cane accaldato.

Attraverso gli alti finestroni polverosi la luce calda del pomeriggio di fine ottobre si addensava nell’enorme sala appositamente trasformata in una sorta di rozzo teatrino. Ai vetri stavano incollate, un po’ di sghimbescio, colorate sagome di cartone raffiguranti zucche, fantasmi e pipistrelli. Le stesse immagini, riprodotte su carta più leggera, sorvolavano lo stanzone da una parete all’altra, macabri festoni oscillanti lungo fili di nylon tesi quasi a casaccio a comporre una disordinata ragnatela.

L’insolito presentatore, nel suo immacolato camice da dottore, si gustò compiaciuto la reazione suscitata dal proprio annuncio. Quindi tese le mani per acquietare la sparuta assemblea.

Gli spettatori erano sistemati su traballanti seggioline pieghevoli, formando due confuse ali che consentivano a un’altrettanto confusa navata di stendersi in mezzo a loro. E in fondo alla navata, esattamente di fronte alla pedana sulla quale stava per aver inizio la rappresentazione, era stata collocata sul pavimento una grossa zucca, svuotata e intagliata. L’aveva preparata Marta, la cuoca di “Villa Serena”, che con il coltello ci sapeva fare.

Era davvero una Zucca di Halloween coi fiocchi: due rombi come orbite ammiccavano sopra il naso triangolare, mentre un largo intarsio a zig zag simulava un sogghigno dalla dentatura frastagliata. All’interno – anima vibrante capace di accendere un simulacro di intelligenza in quel testone deforme – tre robuste candele stavano inclinate a unire le sommità, ognuna poggiata alle altre due a comporre una precaria piramide, e i tre stoppini insieme ardevano in un’unica fiamma vigorosa.

«Forza, Giovannone, porta avanti il primo mostro!» strombazzò il presentatore col tono di un imbonitore da fiera.

Si udì un tramestio, poi dal retro del palchetto d’assi Giovannone (corpulento quanto un lottatore di wrestling, calvo, lo sguardo meno sveglio di quello della zucca) avanzò spingendo senza sforzo apparente – strappando uno sgradevole scricchiolio al legno – una seggiola sulla quale stava legato un uomo.

Questi aveva un bavaglio stretto sulla bocca, ma un urlo di terrore scaturiva ugualmente attraverso i suoi occhi spiritati. Da due grumi rosso scuro zampillava sangue laddove fino a pochi minuti prima vi erano state le orecchie. L’auditorio prese a ridere, fischiare e far pernacchie.

«Per la festa di Halloween ho l’onore di presentarvi… l’Uomo Senza Orecchie!»

Applausi sperticati, strilli, ululati. Il ragazzo che mostrava la lingua ora girava su se stesso, a braccia spalancate, sollevando le proteste di chi gli stava accanto. Una signora di mezza età, con indosso una camicia da notte e una vistosa collana di perle finte al collo, gracchiò: «Dai, Leone! Facci vedere il prossimo mostro!»

Leone (all’anagrafe Leonardo) non esitò un istante, e col suo fare istrionico esortò nuovamente Giovannone:

«Su, spingi qui la seconda meraviglia!»

Giovannone tornò sul fondo della pedana, teatralmente mantenuta in ombra, e ritornò cigolando con una seconda sedia occupata.

«Ed ecco a voi… la Donna Senza Occhi!»

L’esultanza generale proruppe nel salone. Anche la grande zucca parve rallegrarsi davanti a quella vista; la sua triplice fiammella guizzò di soddisfazione.

Legata sulla sedia, trascinata a fianco della prima, stava legata e imbavagliata la cuoca della clinica. Il suo voluminoso torace si sollevava e si riabbassava nella parodia di un mantice impazzito. Le sue grida non potevano trovare sfogo neppure attraverso gli occhi, poiché le palpebre sanguinolente erano infossate davanti a orbite vuote. Il primo “mostro” si voltò a guardare la donna collocata alla sua sinistra, ma subito distolse lo sguardo. Non era da escludere che la pazzia avesse già cominciato a contagiarlo.

Se gli eventi avessero seguito il loro corso ordinario, sarebbe toccato a lui – il dottor Tentori, direttore della clinica psichiatrica – ricoprire il ruolo di presentatore per l’annuale festicciola organizzata allo scopo di svagare i pazienti. E pensare che era stato proprio lui a predisporre con premura gli addobbi, aiutato come sempre dai suoi collaboratori.

Erano solo in quattro, quel pomeriggio: lui, due infermieri, e Marta.

Quell’improvvisa quanto imprevista, violentissima rivolta guidata da Leone aveva invece capovolto l’ordine delle cose. Nessuno se l’aspettava. Per questo era riuscita in pieno. E ora il salone degli intrattenimenti si stava tramutando in un macello.

Leone, infilato nel camice sottratto a Tentori per scimmiottarlo, domandò al pubblico:

«Stanno ancora in piedi le candele?»

Un vecchio, seduto più vicino degli altri alla grande zucca, sbirciò dentro una delle orbite intagliate ed esclamò: «Sì, ma non per molto! Non per molto!» Un filo di bava gli colò a raffreddarsi sul mento.

«Allora facciamo presto, che poi dobbiamo andare! Dai, Giovannone, spingi qui davanti gli altri due!»

E l’energumeno, le mani vistosamente lorde di sangue, obbedì. Accanto alla cuoca, quindi, comparvero in rapida successione i due infermieri, ovvero l’Uomo Senza Naso e (davvero disgustoso a vedersi) l’Uomo Senza Mandibola. I quattro disperati continuavano a mugolare e a contorcersi tra le spire di corda, e le assi del piccolo palco erano già annerite per il sangue che le andava inzuppando.

Gli spettatori in delirio si alzarono in piedi per applaudire. Qualcuno afferrò la propria seggiolina e prese a sbatterla ritmicamente sul pavimento. Appesi ai loro fili, streghe e pipistrelli di carta fremettero come foglie in agonia.

Poi, la voce autoritaria di Leone frantumò quell’ondata di fanatismo urlante.

«Signore e signori, lo spettacolo è ahimè terminato. È giunto per noi il momento di andare. La Grande Zucca giudicherà per noi questi mostri, e il suo sarà il verdetto di Dio!»

Quell’ultima affermazione scatenò una nuova ovazione. Poi tutti quanti si diressero, urtandosi gli uni gli altri, verso l’uscita principale. Leone si avviò dietro di loro senza neppure degnare di un’occhiata né il dottore – che lo fissava implorante, ancora aggrappato a qualche futile speranza – né i suoi sciagurati, sanguinanti collaboratori. Ma prima di uscire si rivolse al suo stolido valletto, che a mani nude aveva creato quelle meraviglie, e gli disse:

«Fai quello che ti ho detto prima. E poi esci.»

Giovannone tentò di ridere, producendo un suono simile a un muggito.

 

L’aria frizzante del pomeriggio morente accolse la piccola comitiva di dementi (vestaglie, cappelli variopinti, labbra vizze scarabocchiate di rossetto, occhi semichiusi, chiome grigie agitate dal vento), e il sole basso oltre gli alberi del parco di “Villa Serena” sparpagliò sul prato una compagine di bislunghe ombre barcollanti.

Dentro, nel salone, le tre candele che fino a quel momento avevano dato un’aria quasi intelligente alla zucca cedettero, ormai troppo corte per sostenersi a vicenda. E come un’aguzza, serpentina lingua rossa, la fiamma baciò la scia di cherosene preparata da Giovannone, si precipitò avida lungo la navata e raggiunse con una gioiosa vampata arancione la pozzanghera in cui si trovavano le quattro sedie.

Dall’esterno, se qualcuno si fosse preso la briga di girarsi per guardare, sarebbe stato possibile distinguere solo un vago chiarore attraverso i finestroni, perché il bagliore scarlatto del sole contro le vetrate restituiva allo spettatore solamente una fulgida gamma di riflessi multicolori. Le urla, invece, si levarono distinte. Folli, stridule, disperate: adattissime per accogliere la più magica notte dell’anno.

«La nostra vera Vigilia di Ognissanti ci aspetta», commentò fra sé con orgoglio Leone varcando col proprio sgangherato esercito il grande cancello spalancato sul mondo.

[Prima pubblicazione: Mystero, ott.2002]