“La casa con le radici” di Fabio Negrini

Fabio Negrini, La casa con le radici, edizioni gosəlfie, 2018

Recensione di Eleonora Rossi

 

È una casa misteriosa, senza confini: ci sono innumerevoli stanze, porte e percorsi labirintici nei quali ci si può smarrire. Come accade nei sogni, o nelle lande sterminate dell’infanzia, «epoca perduta» ove tutto ha ragione di essere.

C’è una Pendola inesorabile alla parete, c’è chi si dedica a fabbricare orologi e chi, beffardo, se li porta via. C’è poi una biblioteca immensa, che possiede tutto il divenire, luogo della storia e di tutte le storie.

È un’opera complessa e ricca di significati il nuovo romanzo di Fabio Negrini, La casa con le radici, (edizioni gosəlfie, 2018) e come suggerisce il titolo, la narrazione si sviluppa in profondità, in una dimensione verticale, quasi fosse una cattedrale della memoria. «La memoria è la sostanza della persona, la sua carne e la sua psiche. Non ha principio né fine, ma solo un ininterrotto sviluppo».

Due bambini, fratello e sorella, vivono in un albero: «È la loro casa e il loro mondo fantastico, il luogo da cui si moltiplicano le occasioni di sorprese e di scoperte – si legge in quarta di copertina –. Con l’inventiva che è prerogativa dell’infanzia, i due bambini sviluppano una realtà immaginifica (…). Così la casa-albero cresce come un organismo vivente, alimentata dai giochi e dall’evoluzione dei suoi abitanti».

Con la ratio del filosofo e con l’intuito del poeta – che non spiega ma allude e significa attraverso le metafore – l’autore non si stanca di indagare e costruisce una «grande allegoria» a partire dai ricordi, che si dilatano e si ramificano offrendo continui spunti di riflessione.

Il lettore dovrà armarsi dell’attenzione e della pazienza dell’appassionato di puzzle per cercare di ricomporre i tasselli di un mosaico che pone sul campo i più grandi interrogativi, fino al senso dell’esistenza stessa: «Qual è il senso del destino? Qual è il valore dell’individuo? Che cos’è la vita?». Un disegno che non si svela mai completamente, perché il testo resta enigmatico, è una scrittura simbolica, con una forza visionaria che a tratti sembra richiamare alla mente Borges e le sue Finzioni.

Un codice segreto, un alfabeto dello smarrimento per rappresentare la difficoltà di trovare un sentiero chiarificatore.

«Domande. Quesiti. Crucci che mi causano una vertigine». All’autore il merito della rappresentazione dei dubbi, delle incertezze, della mappatura di questioni ultime che restano per natura irrisolvibili, ma che sempre sono banco di prova e di gioco per l’essere umano.

La biblioteca è un luogo fondamentale della narrazione perché offre la cifra simbolica dell’ordine e del caos, perché la lettura è avventura irresistibile: «Ogni libro concluso mi coglieva uno slancio verso altri cento». E ancora: «I libri erano occasioni, ci permettevano di estendere il nostro gioco, di recarci in altri posti ancora, di spostarci in situazioni nuove».

Fabio Negrini argomenta ogni passaggio con una accurata attenzione stilistica. Il testo incontra sovente la forza degli aforismi, veri e propri distillati di saggezza. Assiomi, definizioni, specchi, ma solo assaggi di una esaustiva ‘verità’ , perché, scrive l’autore, «bisogna imparare a difendersi dal peccato e dalla verità». La scrittura, al pari della lettura, è veicolo di ricerca, è la strada da percorrere per raccontare, per srotolare un discorso interiore: «Eccomi impegnato nella compilazione di questo resoconto, rivolto a dipanare il valore di una storia dal gomitolo dei fatti che si attorcigliano nella mia memoria».

Diversi piani narrativi si intersecano con incursioni frequenti, tra parentesi, di chi scrive, una voce che dialoga con se stessa e con il lettore: «È allettante concedersi all’intuito, ma si tratta soltanto di uno svago seducente. Invece questo libro ha uno scopo da ottemperare, una direzione a cui attenersi». La direzione è la conoscenza, la comprensione profonda: una meta che si ha l’illusione di sfiorare, ma se si tenta di toccarla e afferrarla, la «Chiave dell’Onniscienza» scivola più lontano, verso l’ignoto. Perché, come ci ricorda l’autore (e quella frase torna e ritorna come un’eco), «Unicum certum dubium est».

(l’Ippogrifo, giugno 2019)